Con la sentenza n. 11467 del 19 marzo 2015 la Sezione 2 Penale della Corte di Cassazione, esaminando il caso di un uomo che era andato ad impossessarsi del telefono cellulare della propria fidanzata solamente per poter mostrare al di lei padre i messaggi privati che ne dimostravano il tradimento ai suoi danni, si è pronunciata stabilendo che “nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene… nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane“.
Anche in assenza di profitto “concreto” identificabile in una materiale apprensione di un bene, potrà quindi sussistere il reato di rapina qualora il detto profitto sia invece qualificabile meramente come “utilità morale”; “per la configurabilità del reato di rapina, non si richiede lo scopo dell’agente di procurare a sè o ad altri un profitto di natura “economica”, ma è al contrario sufficiente che il colpevole abbia operato per il soddisfacimento di qualsiasi fine o bisogno, anche di carattere psichico, e quindi pure per uno scopo di ritorsione o di vendetta” (Altalex).
Per un ottimo commento e per il testo integrale della sentenza, si veda Altalex.
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