Con ordinanza del 28 gennaio 2015 il Tribunale di Ivrea, sezione Lavoro, ha statuito come “gli insulti gratuiti proferiti non solo nei confronti dei propri superiori, ma soprattutto di colleghe, risultano assolutamente gravi in quanto denotano la volontà del ricorrente di diffamare sia la società, sia parte dei dipendenti con le modalità potenzialmente più offensive dell’altrui reputazione, rendendo impensabile la prosecuzione del rapporto di lavoro”.
Nel caso di specie il lavoratore, una volta riassunto dall’azienda per cui lavorava a seguito di un contenzioso, postava sul social network Facebook frasi ingiuriose nei confronti dei superiori definiti “coglioni” nonché nei confronti delle proprie colleghe definite “milf” sebbene queste ultime, tra l’altro, fossero del tutto estranee alla precedente vertenza con l’azienda. Il datore di lavoro licenziava, così, il dipendente per giusta causa il quale ricorreva in Tribunale ritenendo che il proprio post sui social network, sebbene offensivo, non fosse di gravità tale da giustificare il licenziamento.
Il Tribunale di Ivrea ha rilevato come il suddetto post contenente i commenti diffamatori non fosse stato impostato dal lavoratore in gruppi chiusi o visibile solo per i cd. “amici” bensì fosse visibile a chiunque accedesse al social network ed è stato rimosso solo svariati giorni dopo a seguito dell’espressa diffida da parte dell’azienda.
Il Tribunale adito, quindi, ha affermato come la condotta in esame integrasse gli estremi delitto di cui agli artt. 81 cpv, 595 c. 1 e 3 cod. penale in quanto caratterizzata da particolare intensità, violenza e ha avuto come oggetto non solo la società ma anche dipendenti con modalità potenzialmente molto offensive della reputazione. Il Giudice ha evidenziato come le dipendenti oggetto delle offese non avessero alcun collegamento con la controversia di diritto del lavoro del dipendente.
In particolare il giudice ha focalizzato la propria decisione sull’acronimo “MILF” riferito alle colleghe il quale, in sé per sé, presenta un’accezione negativa gravissima ovvero quella di prostituta ultraquarantenne. Il tutto senza considerare come tale acronimo fosse accompagnato da pesanti giudizi sessisti sulle colleghe, tra cui averle definite come prostitute che devono anche pagare per avere clienti.
La gravità dell’offesa è tale ed evidente, soprattutto laddove si consideri che non si è neppure trattato di una reazione istintiva dato che il post è rimasto pubblicato per giorni, da giustificare pienamente il licenziamento per giusta causa.
Per un commento sul punto a firma di Mauro Alovisio e per il testo integrale dell’ordinanza si veda Altalex.
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